(di Giovanni Moro)


L’usuale inaspettato

Tra le nuove parole della politica italiana, la espressione “attivismo civico” e i suoi analoghi come “cittadinanza attiva”, “organizzazioni civiche”, “cittadini organizzati” e simili, può suonare del tutto ovvia, tanto è ormai comune riferirsi a forme organizzate di cittadinanza che esercitano ruoli di natura pubblica e politica pur non partecipando alle forme e alle procedure della democrazia rappresentativa.

Questo sentimento di familiarità è sicuramente fondato su una realtà sociale che si è affermata nel nostro paese come in tutto il mondo negli ultimi 30-40 anni e che è un elemento ormai stabile della vita democratica. Sarebbe sufficiente, per confermarlo, compiere l’esperimento mentale di immaginare come sarebbe l’Italia se all’improvviso scomparissero dal suo territorio, dal suo tessuto sociale e dalla sua arena pubblica le associazioni di volontariato, le imprese sociali, i gruppi ambientalisti, i movimenti per i diritti dei cittadini, le organizzazioni di consumatori e via elencando. Al di là degli ovvi ma non meno seri effetti pratici di una simile evenienza, la sensazione dominante non potrebbe che essere quella di un vuoto o di una mancanza di carattere patologico.

D’altra parte, questa componente del tutto usuale per la vita quotidiana della democrazia non è scontata ed è considerata e trattata con difficoltà sia dalla comunità scientifica che dai policy maker. Per quanto riguarda la prima, si può richiamare la autentica babele di nomi con cui questo fenomeno organizzativo viene identificato dai ricercatori di tutto il mondo: prevalgono definizioni negative o residuali (non profit, non governativo, terzo settore, partecipazione non convenzionale o non-istituzionale ecc.), oppure così ampie da non consentire di coglierne l’elemento distintivo (società civile, associazionismo, gruppi di interesse), o ancora ristrette e settoriali (comitati locali, movimenti di consumatori, gruppi ambientalisti, cooperative sociali, ecc.) (cfr. Moro, 2005: 105-118).

Per quanto riguarda il mondo della politica e delle istituzioni pubbliche, si può menzionare il diffuso (almeno in Europa) atteggiamento contraddittorio, che considera queste organizzazioni nello stesso tempo una risorsa e una minaccia, costituendo una specie di “sindrome del dottor Jekyll e di mister Hyde”, un atteggiamento in forza del quale, mentre gli stati nazionali sono prodighi (benché spesso solo a parole) di forme di supporto in denaro e in natura nei confronti di queste organizzazioni, nello stesso tempo affidano il compito di riconoscerle e legittimarle prevalentemente ai ministeri dell’interno, della giustizia e delle finanze, rivelando timori legati a minacce per l’ordine pubblico e a frodi (Moro, 2009a: 99-109). Gli stessi tentativi di risposta promossi dalle istituzioni pubbliche, dal livello locale a quello globale, riassumibili nella etichetta della democrazia partecipativa, si presentano più che altro come programmi di inclusione dei singoli cittadini nell’attività amministrativa e guardano con sospetto, quando non con aperta ostilità, alle forme organizzate di attivismo civico (cfr. Bobbio, Pomatto, 2007; Bellamy, 2006: 257; Magnette, 2006: 155-156; Gelli, Morlino, 2008; Allegretti, 2009: n. 45; Paci, 2008: 21 ss., v. anche Moro 2009b). 



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